lunedì 11 agosto 2014

MOG 231 - Modelli di Organizzazione e Gestione

Un nuovo post "Manutenzione indumenti di lavoro" è stato pubblicato il giorno 7 luglio 2014 alle ore 12:57 all'interno di "MOG 231 - Modelli di Organizzazione e Gestione".

_Il giorno 17 giugno 2014, la Corte di Cassazione Civile con Sentenza
n. 13745, ha affermato che il Datore di Lavoro è obbligato a
manutenere le tute da lavoro dei Dipendenti *unicamente* quando queste
hanno la funzione di tutelare la salute e la sicurezza dei
Lavoratori._

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE SESTA SEZIONE CIVILE - Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. PIETRO CURZIO - Presidente -
Dott. DANIELA BLASUTTO - Consigliere -
Dott. GIULIO FERNANDES - Consigliere -
Dott. FABRIZIA GARRI - Consigliere -
Dott. ANTONELLA PAGETTA - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
*SENTENZA*

sul ricorso 25354-2011 proposto da:

Omissis elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avv. ... giusta delega a
margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
COMUNE ... in persona del Sindaco prò tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, presso lo studio dell'avvocato ... rappresentato
e difeso dall'avvocato ... giusta mandato in calce al controricorso;

- controricorrente -
avverso la sentenza n. 168/2011 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI del
13.1.2011, depositato il 28/01/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
15/04/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito per il controricorrente l'Avvocato per delega avv. ... che si
riporta agli scritti

*Fatto*

*1.* Con la domanda di cui al ricorso di primo grado ... premesso di
essere dipendente del Comune ... con mansioni di autista
specializzato, ha allegato di non avere potuto utilizzare
correttamente i prescritti indumenti di lavoro protettivi ; il Comune
di ... aveva fornito infatti, ogni due /tre anni due tute di stoffa e,
saltuariamente, tute "usa e getta" le quali non consentivano la
traspirazione né garantivano l'impermeabilità ai liquidi; la
scarsità degli indumenti forniti, il lungo lasso di tempo
intercorrente tra una fornitura ed un'altra, la necessità di lavaggi
frequenti (ai quali aveva provveduto esso lavoratore) avevano
determinato pertanto un logorio tale degli abiti da lavoro da indurre
il ricorrente alla loro sostituzione con abiti propri.
Ha dedotto che la condotta del Comune di ... costituiva violazione
degli artt. 32 Cost. e 2087 cod. civ. , del dpr n. 303 del 1956, del
d.lgs n. 626 del 1994 e della Direttiva europea n. 89/391 CEE e
sostenuto di avere diritto all'indennità per il lavaggio delle tute o
al risarcimento del danno per la condotta del Comune.

*2.* La domanda è stata respinta dal giudice di prime cure con
statuizione confermata in appello.
*2.1*. La Corte territoriale, sulla premessa che il lavoratore
appellante aveva lamentato la violazione della norma costituzionale in
materia di salute, nonché dell'art. 2087 cc. e dell'art. 40 d.lgs n.
626/94, ha ritenuto inapplicabile la normativa introdotta nel 1994
perché riferibile ai soli "DPI" (dispositivi di protezione
individuale), in quanto le tute fornite ai lavoratori erano capi
comuni di abbigliamento e assolvevano alla mera funzione di
preservazione degli abiti dei lavoratori, così come le tute
"monouso"; quindi non si trattava di indumenti predisposti per
tutelare la salute e sicurezza delle persone. Elementi essenziali in
ordine all'obbligo di fornitura di DPI erano, infatti, la frequenza di
esposizione e le caratteristiche del posto di lavoro del singolo
dipendente. L'eventualità di venire a contatto con sostanze nocive
era stata prospettata in ricorso, in modo del tutto generico, tenuto
conto dell'attività svolta, ed era pertanto inidonea a qualificare
gli indumenti forniti quali DPI . La controversia era limitata al solo
preteso obbligo del Comune di di lavare le tute fornite o di risarcire
il danno da violazione di tale pretesa/obbligo per cui non rilevante
era la perizia depositata in atti circa la individuazione di DPI in
ordine ai rischi specifici delle lavorazioni svolte dall'appellante.
La giurisprudenza di legittimità circa la fornitura di idonei
strumenti di protezione e circa l'obbligo per il datore di lavoro di
tenerli puliti ed efficienti, richiamata dall'appellante si riferiva a
casi diversi in cui gli indumenti forniti erano effettivamente DPI o
strumenti di copertura ad essi assimilabili. In difetto di specifica
allegazione era, infine, da escludere l'obbligo contrattuale del
Comune alla fornitura di indumenti da lavoro .

*3*.Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso
l'originario ricorrente sulla base di quattordici motivi; ha resistito
il Comune con controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria
difensiva ex art. 378 cp.c.

*Diritto*

*4*. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione
degli artt 32 della Cost. e dell'art. 2087 cc; si sostiene che esiste
un generale obbligo del datore di lavoro di lavare le tute, come
affermato dalla giurisprudenza di legittimità; in caso di mancato
lavaggio, il lavoratore ha pertanto diritto alla relativa indennità.
*4.1*. Con il secondo motivo si deduce l'omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio, nonché la violazione dell'art
112 cod. proc. civ. e degli artt. 132 cod. proc. civ.; si assume
l'errore del giudice di appello per avere ritenuto che esso ricorrente
aveva, in prima battuta, qualificato le tute quali DPI e per avere
ignorato la domanda del ricorrente fondata sulla sussistenza di un
obbligo generale di lavaggio delle tute da parte del Comune di ... .
*4.2*. Con il terzo motivo si deduce la violazione del d. lgs. n. 626
del 1994 e dell'ulteriore normativa in materia di sicurezza del
lavoro; degli artt. 32 Cost e dell'art.2087 cod. civ.; il
provvedimento impugnato è in contrasto con la giurisprudenza della
Corte di cassazione . Esiste un obbligo generale del datore di lavoro
di lavare le tute in quanto DPI. In caso di mancato lavaggio il
lavoratore ha diritto alla relativa indennità.
*4.3*. Con il quarto motivo si deduce l'omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. Non si era esaminata la perizia
prodotta e non si erano esaminati i rischi in concreto sofferti dai
lavoratori.
*4.4*. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione
dell'art. 2967 cod. civ. del d. lgs n. 626 del 1994 e dell'ulteriore
normativa in materia di sicurezza ; incombe sul Comune datore di
lavoro la prova che non sono necessari DPI per il lavoro e le mansioni
svolte e che le tute non sono DPI ; il lavoratore ha solo l'onere di
dimostrare le mansioni espletate ed il contatto con le sostanze in cui
si imbatte nello svolgimento delle mansioni medesime;
*4.5*. Con il sesto motivo si deduce l'omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso, decisivo per il giudizio. Era onere del comune di
dimostrare che le tute non sono DPI ; e stata omessa la motivazione
sul mancato esame della questione attinente all'onere della prova;
*4.6*. Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione
dell'art. 32 Cost dell'art 2087 cod. civ. del d. lgs n. 626 del 1994 e
della normazione in materia di sicurezza del lavoro; è il datore di
lavoro che è onerato della prova in ordine alla insussistenza del
rischio;
*4.7.* Con l'ottavo motivo si deduce omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. Era onere del datore di lavoro
dimostrare che non sussisteva un rischio per i lavoratori ; la
sentenza impugnata manca del tutto di motivazione sul punto;
*4.8*. Con il nono motivo si deduce violazione e falsa applicazione
degli artt. 32 della Cost.; degli artt. 1218 e 2043 cod. civ.; il
provvedimento impugnato si pone in contrasto con la giurisprudenza di
legittimità.
Nel caso di mancato lavaggio delle tute da lavoro il lavoratore ha
diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale;
*4.9* Con il decimo motivo si deduce l'omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso, decisivo per il giudizio. La decisione non ha motivato
congruamente le ragioni del rigetto della domanda risarcitoria ed in
particolare della insussistenza del danno lamentato;
*4.10*. Con l'undicesìmo morivo si deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 32 Cost e dell'art. 2697 cc, nonché dell'art
414 cod. proc. civ. ; si censura , in sintesi il mancato accoglimento
delle richieste istruttorie articolate in prime cure;
*4.11*. Con il dodicesimo motivo si allega l'omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. Non era stata offerta alcuna
motivazione in ordine alla mancata ammissione delle prove richieste;.
*4.12*. Con il tredicesimo motivo si deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 32 Cost. , dell'art. 2087 cod. civ.; si
censura, in sintesi, la decisione per non avere il giudice di appello
esaminato ed accolto la domanda formulata in via gradata attinente
all'inosservanza dell'obbligo di fornitura delle tute "siano esse
considerate come D.P.I." ovvero come abiti da lavoro;.
*4.13.* Con l'ultimo motivo si deduce omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. La motivazione del provvedimento
impugnato era del tutto carente in merito al punto evidenziato nel
motivo precedente;

*5.* Il primo ed il secondo motivo, che in quanto connessi sono
trattati congiuntamente, devono essere respinti essendo inidonei a
validamente censurare la decisione impugnata.
L'assunto dal quale muove parte ricorrente, e cioè l'avere la
sentenza impugnata trascurato di pronunciare in merito alla dedotta
esistenza di un obbligo di carattere generale dell'ente datore, di
provvedere al lavaggio delle tute, a prescindere dalla
configurabilità delle stesse quali DPI è inesatto; la sentenza
impugnata, infatti, dopo avere dato espressamente atto che
l'appellante si era doluto del non corretto inquadramento della
questione controversa, sotto il profilo della verifica della esistenza
di un obbligo di carattere generale del datore di lavoro, di mantenere
a dovere gli abiti da lavoro in quanto tali ed a prescindere quindi
dalla loro natura di DPI, ha escluso la esistenza di siffatto obbligo
di carattere generale affermando che lo stesso era ipotizzabile solo
ove gli indumenti forniti potevano essere configurati come DPI
"perché solo in tal caso sorgerebbe in capo all'amministratone
l'obbligo di tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del
loro frequente lavaggio" La questione che parte ricorrente assume non
considerata risulta, quindi, al contrario di quanto sostenuto in
ricorso, espressamente esaminata e decisa nel merito in senso
sfavorevole alla tesi attorea.
*5.1*. La correttezza della decisione in ordine alla insussistenza di
un generale obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla
manutenzione ed al lavaggio degli indumenti (ove questi, pur non
costituendo DPI, per le peculiari caratteristiche dell'attività
lavorativa, fossero soggetti a sporcarsi di frequente) non contrasta,
al contrario di quanto assume parte ricorrente, con la giurisprudenza
di questa Corte richiamata nella illustrazione delle censure. Invero
tali precedenti concernono espressamente ipotesi nelle quali gli
indumenti in relazione ai quali è stata affermato l'obbligo datoriale
di provvedere alla manutenzione costituivano DPI. In particolare, si
legge nella sentenza n. 18573 del 2007, richiamata da parte ricorrente
come espressione di indirizzo consolidato del giudice di legittimità
: "L'idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro
deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma del D.P.R n. 547
del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n.
626 del 1994 e ai sensi degli art. 40, 43, commi 3 e 4, di tale
decreto, per il periodo successivo - deve sussistere non solo nel
momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante
l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme
suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale
oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), solo
nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella
concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il
diffondersi d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio
indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza,
esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale
destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni" (Cass.,
5 novembre 1998 n. 11139; 14 novembre 2005 n. 22929; 26 giugno 2006 n.
14712; 13 ottobre 2006 n. 22049). "
*5.3*.Esclusa la esistenza di un obbligo generale della parte
datoriale di provvedere, anche al di fuori dell'ipotesi contemplata
dal d. lgs n. 626 del 1994, alla fornitura e manutenzione degli
indumenti da lavoro, diviene irrilevante il richiamo di parte
ricorrente, richiamo invero generico, al notorio rappresentato dal
fatto che, secondo la comune esperienza, i lavoratori addetti ad un
certo tipo di lavoro si imbrattano giornalmente con un tipo di sporco
che richiede un lavaggio particolare. Tale circostanza risulta infatti
inidonea a fondare di per sé l'obbligo datoriale a provvedere al
lavaggio degli indumenti.

*6.* Il terzo ed il quarto motivo, con i quali viene censurato, in
sintesi, il mancato riconoscimento della natura e finalità di DPI,
alle tute fornite dal Comune, sono anch'essi infondati.
*6.1*. La Corte territoriale ha escluso che le tute in questione
costituissero dispositivi individuali di protezione, ai sensi degli
artt. 40 e 41 d. lgs n. 626 del 1994, sulla base di una duplice
considerazione: le caratteristiche intrinseche degli indumenti (tute
di stoffa) che li rendevano inidonei a svolgere una funzione di
protezione della salute del lavoratore da rischi specifici
dell'ambiente di lavoro ed in particolare dal contatto con sostanze
nocive; la prospettazione, in domanda solo di una generica
possibilità di venire in contatto con le
dette sostanze.
*6.2*. In merito al primo profilo il giudice d'appello è partito dal
necessario accertamento se le tute distribuite ai lavoratori, anche se
a cadenze assolutamente insufficienti, quelle monouso e quelle di
stoffa, potessero essere considerate DPI (dispositivi di protezione
individuale) ai sensi della normativa in vigore, ciò in quanto si
evince dallo stesso ricorso e dalla ricostruzione della vicenda
processuale che l'assimilazione tra le tute in parola e i veri e
propri DPI sia stato sempre argomento centrale della tesi di parte
ricorrente in quanto la normativa sui DPI- proprio in relazione alle
lavorazioni cui era addetto il lavoratore- vuole dare concretezza e
specificazione alle norme di ordine generale ed astratto come l'art 32
della Cost. e l'art 2087 cc.
La Corte territoriale correttamente rileva che se le tute fornite dal
datore di lavoro Comune di ... si dovessero considerare DPI, allora
non vi sarebbe alcun dubbio del connesso obbligo per il Comune di
tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del loro frequente
lavaggio. Ora la Corte di appello rileva che ai sensi dell'art 40 D.
lgs. n. 626/66 e DPI "qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggere contro uno
o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute
durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a
tale scopo" e non sono invece DPI "gli indumenti di lavoro ordinari e
le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e
la salute del lavoratore": l 'art 42 precisa che i DPI devono essere
adeguati ai rischi da prevenire, alle condizioni esistenti sul luogo
di lavoro e tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del
lavoratore e devono poter essere adattati all'utilizzatore secondo le
sue necessità, mentre all'art 43 si precisano gli obblighi di
corretta fornitura dei DPI anche in ordine al loro mantenimento in
stato di efficienza ed igiene. La Corte di appello ha poi ricordato
che la circolare n. 34 del 29.4. 1999 (allegato 17) precisa che gli
indumenti di lavoro possono avere tre funzioni: a) di divisa cioè di
identificazione aziendale; b) di mera preservazione degli abiti civili
dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività
lavorativa; e) di protezione da rischi per la salute e sicurezza e che
solo in quest'ultimo caso gli indumenti rientrano tra i DPI (a titolo
esemplificativo gli indumenti per evitare il contagio con sostanze
nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici).
*6.3.* Date queste premesse normative la Corte territoriale ha
logicamente concluso che le tute fomite ai lavoratori dal Comune di
non potevano essere ritenute DPI per le loro caratteristiche di capi
comuni di abbigliamento ( tute di stoffa) e la loro funzione di
vestizione in quanto strumentali al solo scopo di mera preservazione
degli abiti civili dell'attuale ricorrente dalla ordinaria usura
connessa all'espletamento dell'attività lavorativa.
Discorso da farsi anche per le tute di lavoro monouso in tjvek. La
Corte territoriale ha rilevato che proprio il lavoratore aveva
allegato e ribadito che le tute monouso erano non traspiranti e
permeabili ai liquidi e quindi inidonee e che quelle di stoffa si
sporcavano facilmente sicché entrambe i generi di indumenti di lavoro
non realizzavano alcuna significativa tutela rispetto ai rischi
specifici cui il lavoratore era- a suo dire- esposto. Le
caratteristiche e la tipologie di tali indumenti escludono che gli
stessi possano essere considerati DPI alla luce della normativa in
vigore, non possedendo la funzionalità tipica dei DPI e cioè
un'adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive (per
lavorazioni come quelle cui era addetto il ricorrente) essendo stati
forniti solo per preservare gli abiti civili dall'usura connessa
all'espletamento dell'attività lavorativa. Si tratta di un
accertamento di natura squisitamente fattuale motivato congruamente ed
ancorato ad elementi desunti dalla stesse prospettazioni di parte
ricorrente e quindi insindacabile come tale in questa sede, che porta
ad escludere in radice non solo la dedotta assimilazione tra le tute
fornite al dipendente del Comune di ... e i DPI, ma anche ogni nesso
tra la tutela della salute e dell'igiene del dipendente ex art. 32
Cost. ed ex art 2087 cc. e la domanda formulata in questa sede
processuale.
*6.4*. Sotto quest'ultimo profilo è da sottolineare che la Corte di
appello ha affermato che "per la sussistenza dell'obbligo di assegnare
a ciascun dipendente i DPI, costituiscono elementi essenziali l'entita
del rischio, la frequenza di esposizione, le caratteristiche del posto
di lavoro del singolo dipendente . I ricorsi degli attuali appellanti
si basano,invece, su una generica possibilità di venire in contatto
con sostanze nocive, dato certamente inidoneo a connotare gli
indumenti fomiti quali DPI. Con quest'ultima affermazione, il giudice
di appello ha dimostrato di ritenere le allegazioni di cui in ricorso
inidonee, per la loro genericità, a configurare, anche ove provate,
la sussistenza di una concreta situazione di rischio per la salute del
lavoratore tale da imporre alla parte datoriale il ricorso a
dispositivi di protezione individuale. La valutazione di inadeguatezza
e genericità delle allegazioni attoree a configurare una situazione
di rischio dell'ambiente lavorativo tale da imporre 1'adozione di DPI,
non risulta specificamente contrastata dall'odierno ricorrente, il
quale nulla deduce in ordine alla eventuale incongruità o illogicità
di tale valutazione, al fine di sollecitare il sindacato di
legittimità sulla stessa.

*6.5*. Parte ricorrente a sostegno dell'assunto della finalità di DPI
delle tute fornite dal Comune richiama la perizia della RM Consulting
e la relazione Asl di Milano . Il riferimento a tali atri, è
formulato in termini inadeguati a incidere sull'accertamento di fatto
del giudice di appello in merito alle assenza nelle tute fornite delle
caratteristiche proprie dei dispositivi individuali di protezione,
oggetto dell'obbligo di sicurezza datoriale. Questa Corte ha chiarito
che "il controllo della congruità e logicità della motivazione, al
fine del sindacato di legittimità su un apprezzamento di fatto del
giudice di merito, postula la specificazione da parte del ricorrente -
se necessario, attraverso la trascrizione integrale nel ricorso -
della risultanza (parte di un documento, di un accertamento del
consulente tecnico, di una deposizione testimoniale, di una
dichiarazione di controparte, ecc.) che egli assume decisiva e non
valutata o insufficientemente valutata dal giudice, perché solo tale
specificazione consente al giudice di legittimità - cui è precluso,
salva la denuncia di "error in procedendo", 1' esame diretto dei fatti
di causa - di deliberare la decisività della risultanza non valutata,
con la conseguenza che deve ritenersi inidoneo allo scopo il ricorso
con cui, nel denunciare l'omessa valutazione da parte del giudice di
merito di una circostanza decisiva, ci si limiti a rinviare alla
prospettazione fatta negli atti di causa" (Cass. n. 6679 del 2006).
Parte ricorrente non ha osservato gli oneri prescritti al fine della
valida censura dell'accertamento di fatto del giudice di merito . Non
ha, in primo luogo, in violazione del disposto dell'art. 366 cod.
proc. civ. , specificato il luogo processuale in cui risultavano
prodotti i documenti menzionati né ha trascritto il relativo
contenuto e, soprattutto, non ha indicato quali erano le circostanze
emergenti da tali documenti, aventi carattere di decisività,
trascurate dal giudice di merito . Il terzo e quarto motivo vanno
quindi respinti.

*7*. Il quinto, il sesto, il settimo e l'ottavo motivo di ricorso,
trattati congiuntamente in quanto tutti attinenti al tema dell'onere
della prova, sono anche essi infondati.
*7.1*.La tesi di parte ricorrente è che sul Comune ricadeva l'onere
di provare che l'attività espletata dal lavoratore non esigeva
l'adozione di DPI e quindi l'assenza di rischio, mentre il lavoratore
era tenuto esclusivamente a provare le mansioni svolte ed il contatto
con sostanze nocive; censura quindi che la Corte territoriale non
abbia motivato in ordine alla questione relativa all'onere della prova
che assume sollevata con il ricorso in appello.
*7.2*. Si premette che, come correttamente rilevato dalla Corte
d'appello, oggetto della domanda era l'accertamento dell'obbligo per
il Comune di fornire le tute prima indicate e comunque di tenerle
pulite e, in linea subordinata, di risarcire il dipendente dalle spese
sostenute di lavaggio delle tute, questione completamente estranea al
tema della tutela della salute e dell'igiene nel luogo di lavoro ex
art. 32 della Cost. ed ex art. 2087 cc, posto che le prima ricordate
tute non erano fornite a tale scopo, ma solo per preservare gli abiti
civili dall'usura dovuta all'attività lavorativa svolta.
La domanda non concerneva quindi, in prima battuta, la fornitura di
DPI ove necessario al fine di salvaguardare i beni costituzionalmente
protetti prima ricordati, ma riguardava direttamente il tipo di tute
distribuite (saltuariamente, a stare alla prospettazione di parte
ricorrente) dal Comune di non altre vestizioni o altro tipo di
protezione.
*7.3* .E' in relazione a tale articolazione della originaria domanda
che deve quindi essere verificato il rispetto della regola sulla
distribuzione dell'onere probatorio.
La Corte territoriale, nel confermare la decisione di primo grado che
aveva rigettato la domanda del lavoratore, ha implicitamente posto a
carico di quest'ultimo l'onere di provare la sussistenza dell'obbligo
dell'ente datore di fornire e provvedete alla manutenzione delle tute,
dalla cui pretesa violazione scaturisce la pretesa risarcitoria
azionata nel presente giudizio.
*7.4.* Il criterio applicato dalla Corte di merito risulta coerente
con il canone di cui all'art 2697 cod. civ. secondo il quale "Chi vuol
far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento". Per completezza di esposizione può
soggiungersi che la regola di cui all'art. 3697 cod. civ. in tema di
responsabilità datoriale, ove dedotta la violazione del disposto
dell'art. 2087 cod. civ., richiede, secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Corte, comunque l'adeguata allegazione prima
ancora che la prova da parte del lavoratore del danno sofferto e del
nesso causale tra detto pregiudizio e le caratteristiche di nocività
dell'ambiente di lavoro e solo se il lavoratore abbia fornito la prova
di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di
provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del danno ( ex plurimis : Cass. n. 2038 del 2013).
*7.5*. Parte ricorrente si è sottratta agli oneri sopra delineati,
secondo quanto ritenuto, con affermazione non specificamente
contrastata in ricorso, dalla Corte di merito in ordine alla
genericità di prospettazione con riferimento al possibile contatto
con sostanze nocive.

*8*. L'accertata insussistenza dell'obbligo - legale o contrattuale -
per il Comune di di provvedere al lavaggio delle tute assorbe le
censure formulate con il nono e decimo motivo, attinenti al mancato
accoglimento della domanda di risarcimento del danno, patrimoniale e
non patrimoniale, attesa la inconfigurabilità di un danno risarcibile
laddove non sia ipotizzabile un inadempimento datoriale.

*9*. L'undicesimo e dodicesimo motivo con i quali viene censurata
sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione
la mancata ammissione di mezzi istruttori articolati in ricorso, sono
entrambi infondati.
*9.1*. Questa Corte ha chiarito che "Quando sia denunziato, con il
ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto
il profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio, è
necessario che il ricorrente non si limiti a censure generiche di
erroneità e/o di inadeguatezza della motivazione, ma precisi e
specifichi, svolgendo critiche concrete e puntuali, seppure
sintetiche, le risultanze e gli elementi di giudizio dei quali lamenta
la mancata acquisizione, evidenziando altresì in cosa consistesse e
con quali finalità e in quali termini la richiesta fosse stata
formulata. Più in particolare, ove trattasi di una prova per testi,
è onere del ricorrente, in virtù del principio di autosufficienza
del ricorso per cassazione, indicare specificamente le circostanze
concrete che formavano oggetto della prova, quale ne fosse la
rilevanza, e a quale titolo i soggetti chiamati a rispondere su di
esse potessero esserne a conoscenza, atteso che il controllo deve
essere consentito alla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni
contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con
indagini integrative (Cass. n. 9290 del 2004, Cass. n. 5479 del 2006 ,
n, 10357 del 2005) e che "In materia di consulenza tecnica d'ufficio
la decisione del giudice di merito che ne esclude l'ammissione non è
sindacabile in sede di legittimità, posto che compete al giudice del
merito l'apprezzamento delle circostanze che consentano di escludere
che il relativo espletamento possa condurre ai risultati perseguiti
dalla parte istante, sulla quale incombe pertanto l'onere di offrire
gli elementi di valutazione." (Cass. n. 26264 del 2005).
*9.2*. Parte ricorrente si è sottratta agli oneri, sopra delineati,
su di essa ricadenti al fine della valida censura della mancata
ammissione dei mezzi istruttori e del mancato espletamento della
consulenza tecnica d'ufficio; pur avendo, infatti, riprodotto in
ricorso le richieste istruttorie di prime cure ed in particolare i
capitoli in relazione ai quali era stata formulata la richiesta di
prova orale, nel censurare la mancata ammissione della stessa, si è
limitata a dedurne, in maniera assertiva, la rilevanza . Non ha in
alcun modo argomentato sulle ragioni dello specifico rilievo delle
circostanze oggetto di prova alla luce degli elementi in atti né ha
specificato quale fatto, avente carattere dì decisività, essa era
destinata a dimostrare. Analoga genericità si rileva in relazione
alla denunzia di mancata ammissione della ctu dovendosi, anzi,
evidenziare che alla stregua delle medesime prospettazioni del
ricorrente alla stessa era demandata la verifica di circostanze che
avrebbero dovuto costituire prima oggetto di puntuale allegazione.
Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la
consulenza tecnica di ufficio non costituisce un mezzo istruttorio in
senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella
valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che
necessitino di specifiche conoscenze; in conseguenza suddetto mezzo di
indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal
fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata
qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle
proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una
indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non
provati.
(Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, cod.
proc. civ. da Cass. otd. n. 3130 del 2011). Nel caso di specie,
invece, la consulenza tecnica d'ufficio era destinata a supplire alla
carenza e genericità di allegazione in ordine all'esposizione al
rischio del lavoratore, secondo quanto accertato dal giudice di
appello, con affermazione rimasta incontestata (v. sub 6.4.).

*10*. Il tredicesimo ed il quattordicesimo morivo con i quali è
denunziato, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di
motivazione l'omesso esame della domanda subordinata , intesa
all'accertamento dell'obbligo del Comune a provvedere al lavaggio
delle tute di stoffa, siano esse considerate DPI o come meri abiti da
lavoro, non si confrontano con le ragioni a base del decisum del
giudice di appello. La Corte territoriale, infatti, ha espressamente
valutato l'obbligo datoriale di provvedere al lavaggio tute sia con
riferimento alla configurabilità delle stesse come DPI sia con
riferimento alla configurabilità come meri abiti da lavoro ed
escluso, con riguardo a quest'ultimo profilo, la sussistenza dello
stesso in difetto di previsione contrattuale collettiva in tal senso,
circostanza quest'ultima non investita da censura alcuna.
La sentenza impugnata deve essere pertanto confermata. Le spese,
liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza .

*P. Q. M*.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione
delle spese che liquida in € 1.500,00 per compensi professionali e
in € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Roma, 15 aprile 2014


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