martedì 20 marzo 2012

MOG 231

La scomparsa di Marco Giorcelli, direttore de Il Monferrato
pubblicato il: 20 marzo 2012 alle ore 10:20
fonte: MOG 231
link: http://www.mog231.it/la-scomparsa-di-marco-giorcelli-direttore-de-il-monferrato/

MONFERRATO (AL) – Giovedì 15 marzo alle sette del mattino è venuto
a mancare *Marco Giorcelli*, direttore de "Il Monferrato".
Giorcelli, 51 anni e da 19 anni direttore della testata locale è
morto per mesotelioma pleurico da amianto, di cui aveva conosciuto
diagnosi pochissimi mesi fa, il 31 gennaio 2011. Sabato scorso nella
chiesa Frati di Porta Milano hanno avuto luogo i funerali.

La redazione di Quotidiano Sicurezza esprime cordoglio e invia un
messaggio d'affetto ai familiari del direttore Giorcelli e alla
redazione de "Il Monferrato".

*"Esposizione di tipo ambientale"* alle polveri di amianto. Questa
la causa della malattia comunicata a Giorcelli dalla sua oncologa.
Un'esposizione quindi non avvenuta in luoghi e ambienti nei quali si
tratta e lavora amianto, ma nelle aree circostanti, nelle territorio
che quei luoghi include.

È il Giorcelli stesso, in un articolo pubblicato su Il Monferrato nei
giorni immediatamente successivi alla drammatica diagnosi a raccontare
il senso di quella diagnosi, rileggendo la sua vita e il suo rapporto
definitivo con la città e con la sua ombra peggiore, l'amianto.
Riportiamo qui integralmente quell'articolo, pubblicato di nuovo da
"Il Monferrato" il 16 marzo 2012.

"Mesotelioma maligno epiteliomorfo. Il verdetto sta lì, in tre
parole. Con la terza - mi hanno spiegato - che sa di speranza, perché
indica la forma meno aggressiva di questo tumore. Il tumore
dell'amianto. Quella che meglio si può provare a combattere, con
maggiori speranze di sopravvivenza. E io ci proverò. Ma quelle tre
parole, così nitide su un referto medico che non ha bisogno di
aggiungere troppe spiegazioni, da martedì 25 gennaio sono la mia
stella di David, il segno di una diversità - chiamiamola malattia -
che dentro di me ha cambiato tutto.

Fino alla vigilia di Natale, un mese prima, ho lavorato e vissuto a
testa bassa: con frenesia, fretta, con la passionaccia benedetta e
maledetta di un lavoro che ti tiene incollato in redazione anche 14
ore al giorno. Poi, proprio alla sera della vigilia, una tosse
insistente ha fatto suonare il primo campanello. Un'influenza
banale, solo un po' insistente, come quella che va di moda
quest'anno? Il prossimo anno sarà meglio fare il vaccino?

No, non era influenza. E il vaccino giusto ancora non esiste.
Mesotelioma pleurico. È quello che si è portato via prima centinaia
di lavoratori dell'Eternit, poi centinaia di cittadini, di età
diverse. «Esposizione di tipo ambientale», conclude l'oncologa.
Certo. Mica ho lavorato mai l'amianto. Ma a Casale Monferrato,
questa città sfortunata, devastata, che però non posso certo
smettere di amare, ci ho vissuto sempre.

Cinquant'anni, esclusi appena i periodi ferie, a respirare a pieni
polmoni l'aria di questa città che mi ha cresciuto: ad annusare le
violette della primavera, a sfidare l'afa dell'estate, a lasciare
entrare nelle ossa la nebbia e il fumo delle caldarroste, a mangiare
la neve. Studi, amori, amicizie, famiglia, lavoro: tutto qui. A Casale
Monferrato e sulle colline intorno: morbide mammelle che ho imparato a
conoscere fin da ragazzino, in piedi sulla vespa di papà, che
scavallava i bricchi e si fermava a prender fiato sui punti più
panoramici, da dove riconoscevamo i campanili, i paesi, il profilo
delle Alpi.
Mi sono sempre considerato un casalese doc. Da martedì 25 gennaio, lo
sono più che mai. Anch'io porto il segno più profondo della
casalità di questi ultimi cinquant'anni: il tumore dell'amianto.
Come migliaia di persone che non ci sono più, come centinaia che
combattono la stessa battaglia.

Noi di Casale Monferrato. Una piccola Hiroshima, una piccola Nagasaki,
una piccola Chernobyl.

Ma quanto piccola? Certo siamo compagni di sventura, e se
raccogliessimo le tute di coloro che hanno lavorato l'amianto e
d'amianto sono morti, ne potremmo fare un cumulo enorme, come ad
Auschwitz. E, in un altro mucchio, le scarpe, le borse, i libri di
coloro che l'amianto non l'hanno lavorato mai, ma che sono morti
ugualmente per questa fibra maledetta.

Finora, dal 25 gennaio, non ho ancora provato rabbia, dico un
sentimento personale risentito, per coloro che hanno disseminato la
città di quella malapolvere che ha portato via tanti di noi. E tanti
amici e persone che ho conosciuto personalmente: Mauro Cavallone, che
mi seguiva con la benevolenza di un fratello maggiore, il quale quasi
non ha avuto nemmeno il tempo di combattere e che mi ha aspettato per
l'ultimo respiro; Luisa Minazzi, che ha tenuto a bada per qualche
anno proprio la varietà meno aggressiva, e che forse ha respirato
polverino in quel cortile vicino all'argine nel quale giocavo
anch'io, da ragazzo: ma saranno passati quasi 45 anni; Giorgio
Cozio, che ha sofferto nella stanza accanto alla mia e se ne è andato
in silenzio, in una notte; Alessandro Prosio, che un giorno è venuto
da me in redazione con un bigliettino con su scritto: «Maledetto
amianto. Grazie Eternit» e che qualche mese dopo si è arreso. E
tanti, tanti, troppi altri: mio zio Valente, mia zia Anna.

O meglio, vorrei dire, per ora non mi si è aggiunto - forse perché
il dolore fisico mi ha finora risparmiato - nessun ulteriore
sentimento di rabbia, per il fatto di essermi trovato cucita
anch'io, sulla pelle, questa stella di David fatta con una parola,
mesotelioma. Perché la rabbia la provo da anni: non per gli imputati
del maxiprocesso che si sta celebrando a Torino, il più grande mai
aperto in Italia per una strage sul lavoro, ma per tutto quel cumulo
di crudeltà, menzogne, sotterfugi, connivenze, che ha consentito ai
«signori dell'amianto» di costruire, a Casale e nel mondo, una
mostruosa macchina per produrre potere e denaro, denaro e potere: una
fuoriserie con piccolo, forse - per loro - trascurabile difetto,
quello di consumare carburante umano: dignità, vite e famiglie
spezzate. Trasformate in polvere prima che il loro destino fosse
compiuto.

Onestamente, prima del maxiprocesso in corso a Torino, pensavo che
all'origine del disastro ci fossero atteggiamenti gravemente
colpevoli, ma soprattutto irresponsabili: una terribile leggerezza,
una tremenda sottovalutazione del rischio. Ciò che è emerso al
processo, che ha rilevato l'esistenza addirittura di manuali della
menzogna e dunque una atroce consapevolezza di quanto si stava facendo
e causando, mi ha atterrito. Dei colpevoli ci sono sicuramente e il
loro è stato un delitto contro l'umanità. Gli imputati hanno
diritto a un processo giusto e auguro loro di non essere colpevoli:
altrimenti per loro si dovrebbe provare pena, più che rabbia, per
come hanno negato il senso dell'umanità nel nome del profitto, del
potere.

Certo, noi di Casale Monferrato chiediamo giustizia. Per i nostri
morti, per le nostre sofferenze, per le nostre famiglie sconquassate
come se sul nostro cielo si fosse combattuta, nel ventesimo secolo,
un'altra guerra. Lunghissima, estenuante. E senza possibilità di
difenderci. Un crimine contro l'umanità".

vedi l'originale (La scomparsa di Marco Giorcelli, direttore de Il Monferrato) su: http://www.mog231.it/la-scomparsa-di-marco-giorcelli-direttore-de-il-monferrato/

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